Sul grande schermo l’intenso film, drammatica e impietosa autobiografia di una nazione, tratto dal romanzo di De Roberto

“I Vicerè” di Roberto Faenza

  Cultura e Spettacoli  

La storia. «Scusate zio, perdonatemi. Voi siete di destra, no? Il Presidente del Consiglio non è di sinistra?», chiede Consalvo, il protagonista del film alla zio Duca, diventato deputato, che così gli risponde: «Consalvo mio, ma non ti hanno insegnato proprio niente a te! Destra, sinistra, oggi non significano più niente! Di questi tempi tutto cambia talmente velocemente che non possiamo più stare appresso alle etichette». Agli spettatori del film questi e molti altri dialoghi sembreranno scritti dagli sceneggiatori. Risalgono invece alla penna di Federico De  Roberto, autore del romanzo al quale il film è ispirato, a riprova della modernità di quel racconto. Se dovessimo definire in poche parole cos’è il film, prenderemmo in prestito quelle di Antonio Di Grado, attento studioso del romanzo: «l’impietosa autobiografia di una nazione». La famiglia, lo Stato, la Chiesa sono i motori attorno ai quali gira il racconto, uniti in un solo credo: la sopraffazione. E’ la sopraffazione dei forti sui deboli, dei ricchi sui poveri, dei potenti sul popolo a guidare i personaggi, i quali in nome di un distorto senso del dominio calpestano e travolgono tutto ciò che incontrano sul loro cammino. Ciò che siamo stati e ciò che siamo, i vizi che ci affliggono, la resistenza a ogni cambiamento e, per contro, la vocazione al conformismo, la tempestività a chinare la schiena di fronte ai vincitori... questa la materia di cui è fatta la pellicola, che si snoda impiegando i tratti del dramma e del grottesco.

I Vicerè è un quadro feroce di quello che siamo noi italiani, un affresco che fa venire in mente le tinte forti di Goya. E non è un caso che la famiglia al centro delle trame sia infatti di origine spagnola. Il racconto comincia a metà del ‘800, negli ultimi anni della dominazione borbonica in Sicilia, alla vigilia della nascita dello stato italiano. Le esequie della principessa Teresa sono l’occasione per presentare i personaggi della famiglia Uzeda, discendenti dei Vicerè di Spagna. Lo spettatore è subito introdotto in un mondo di fasto, di splendore, ma anche di prepotenza e di miseria, che appare agli occhi contemporanei familiare ed estraneo al tempo stesso. E’ questo uno dei punti di forza della storia: il mescolarsi del favoloso con il reale in un impasto di profondo fascino. Attraverso gli occhi di un ragazzino, Consalvo, l’ultimo erede degli Uzeda, si svelano i misteri, gli intrighi, le complesse personalità degli appartenenti alla famiglia, tutti dominati da grandi ossessioni e passioni. In lotta l’uno con l’altro, gli Uzeda si combattono per l’eredità della principessa defunta e per i desideri contrastanti di ognuno di loro. Il piccolo Consalvo cresce così in una famiglia in perpetua guerra. E’ confortato nei suoi primi anni dall’amore della madre, condannata a morte prematura, e dall’affetto della sorellina, complice di ogni ventura. Ma si trova in conflitto, sin da bambino, con un padre superstizioso e tirannico, il principe Giacomo, più interessato al patrimonio di famiglia che all’amore per i propri cari, pronto a lasciar morire la moglie e a risposarsi poco dopo con una cugina. La storia di Consalvo avanza in un percorso di formazione emblematico: dopo essere stato esiliato dal padre nel mondo di un monastero benedettino - tra privazioni, corruzione e fasti spagnoleschi - si affaccia a una giovinezza scapestrata da ribelle, simile nello spirito a quella di tanti giovani d’oggi.Il tragitto di Consalvo ha una forte attinenza con il nostro presente. Dal mondo che lo circonda, fatto di compromessi e viltà, Consalvo coglie una profonda lezione di vita e alla fine sceglie di impossessarsi del potere per non lasciarsi sopraffare da quello stesso mondo.Da una nota del regista Roberto Faenza: “Dopo le mie pellicole più recenti, avevo pensato al progetto di una nuova versione  aggiornata di Forza Italia, il film la cui censura e la messa al bando ventennale avevano segnato la mia carriera, se così posso dire, cinematografica. Mi accorgo ora di aver realizzato questa mia intenzione portando sullo schermo I Viceré.Il primo quesito che ci si può porre, di fronte a questa avventura cinematografica, è come mai si sia dovuto attendere tanto tempo dalla pubblicazione del romanzo di Federico De Roberto (partenopeo per nascita e catanese di formazione), la cui stampa risale al 1894. Da parecchi anni, ho coltivato il desiderio di portare sullo schermo questa storia. Sapevo dei tentativi di molti altri registi e mi sono chiesto perché questo straordinario romanzo non sia arrivato prima al cinema. Sin dal secolo scorso, si pensò a una trasposizione cinematografica, ma per vari motivi e traversie non avvenne. Il che ha costituito certamente un torto non solo verso De Roberto, ma soprattutto nei confronti del pubblico italiano. Probabilmente ha nociuto a De Roberto l’ostilità delle critiche idealiste di Benedetto Croce (che nel 1939 lo stroncò senza mezzi termini, definendo il suo romanzo, su , “un’ opera pesante, che non illumina l’intelletto e non fa mai battere il cuore”) e in tempi più recenti non aver riconosciuto al lavoro di De Roberto la primogenitura di molte pagine rielaborate da autori successivi. Tuttavia, più delle critiche, ha certamente nociuto al romanzo l’opposizione, per oltre un secolo, da parte dei due poteri forti del paese: la politica e la Chiesa, entrambi al centro del romanzo.

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