Nuova sentenza della Corte di Cassazione

Mobbing: durata della condotta e responsabilità del datore

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La Suprema Corte con la sentenza n. 22858 del 9 settembre 2008 ha affermato che l´individuazione del tempo necessario a determinare mobbing è un procedimento logico complesso, in cui è necessario considerare l´ambiente socio-culturale in cui il conflitto si svolge, le relazioni psicologiche del mobbizzato e lo specifico lavoro svolto, cassando di conseguenza la sentenza della Corte di Appello di Torino che aveva rigettato le tesi della lavoratrice sostenendo, al contrario, che la protrazione del comportamento per sei mesi non fosse sufficiente a concretizzare mobbing.

La Corte di Cassazione ha riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro per la condotta mobbizzante attuata dal dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica (un quadro) rispetto alla vittima, precisando che non esclude tale responsabilità un mero - tardivo - intervento pacificatore, non seguito da concrete misure e da vigilanza ed anzi potenzialmente disarmato di fronte ad un´aperta violazione delle rassicurazioni date dal presunto mobbizzante.

Nella motivazione la Suprema Corte ha anche precisato che il mobbing è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore. … Caratterizzano questo comportamento la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti, la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione ed all´emarginazione del dipendente) e la conseguente lesione, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico.

Lo specifico intento del comportamento e la sua protrazione nel tempo lo distinguono da singoli atti illegittimi.

Fondamento dell´illegittimità è l´obbligo datoriale, ex art. 2087 cod. civ., di adottare le misure necessarie a tutelare l´integrità fisica e la personalità morale del prestatore (Cass. n. 4774/06).

Pertanto il datore di lavoro è responsabile, pur in assenza di un suo specifico intento lesivo, anche se il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente (art. 2049 cod. civ.) per la colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo.

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